vendredi 20 mars 2015

CAPIRE LA RUSSIA - Prefazione di Giulietto Chiesa al libro.

Da  http://comunicati.russia.it/capire-la-russia.html

CAPIRE LA RUSSIA



E' da poco uscito uno splendido volume sulla Russia: Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, Zambon, 2015
Ne pubblichiamo qui la prefazione di Giulietto Chiesa pregando i nostri lettori di acquistarlo e leggerlo. Ne vale la pena. Una grande opera che aiuta il lettore italiano a districarsi nella conoscenza del paese più grande del mondo e, forse, il più bello.

Mai come in questo momento l’idea, il problema, di “conoscere la Russia” è importante, decisivo per la pace mondiale. Non perché la Russia costituisca una minaccia, ma perché coloro che hanno lanciato l’offensiva contro la Russia – un’offensiva che si propone la sua distruzione– non hanno una cultura (politica, etica, storica) in grado di misurare i pericoli dell’impresa che si accingono a realizzare. Mi riferisco,  naturalmente, agli Stati Uniti d’America, che di questa impresa sono gl’ideatori e i principali propugnatori. E che, in un ricorso storico davvero agghiacciante, si apprestano a ripetere le gesta di quei russi, tutti riassunti nella tragicomica figura di Boris Eltsin, che disfecero l’Unione Sovietica.
Le affermazioni contenute in queste prime dieci righe – quattro per la precisione – sono tutte, in varia misura, contro-corrente, cioè contro le idee che il mainstream va spargendo a piene mani, tout azimut direbbero i francesi, dal 1989, l’anno fatale della caduta del famoso e famigerato Muro di Berlino. Dunque sarà mio compito argomentare in dettaglio ciascuna di esse. Che sarà il mio modesto contributo e accompagnamento di questo libro, che le tocca quasi tutte.
Dirò subito che i materiali raccolti e commentati da Paolo Borgognone sono il ritratto di un’epoca di transizione concettuale, e sono, al contempo, la fotografia di una totale vittoria e di una totale sconfitta. La vittoria è quella dell’Impero; la sconfitta è non solo quella del comunismo, o del “socialismo reale” che dir si voglia, ma dell’intera storia della sinistra mondiale così come si è dipanata nel corso degli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai tempi nostri. Della sconfitta qui si parla molto, e ne parlerò anch’io. Della vittoria si può dire subito – anticipando le argomentazioni di merito – che è lo spartiacque tra una vertiginosa salita e una rovinosa caduta. La vertiginosa salita è quella dell’Impero. Quanto rovinosa sia la sua caduta è ancora da vedere, così com’è da vedere su chi, tra gli abitanti di questo nostro pianeta, questa rovina si rovescerà. Ma poiché la vittoria è stata travolgente e vertiginosa, coinvolgendo gran parte del pianeta, la sua caduta non potrà che essere rovinosa. Anche perché – aggiungo – c’è un grande quantitativo di dati che indicano che non avverrà lentamente, nemmeno gradualmente, ma piuttosto si presenterà come un collasso o, per meglio dire, come una serie di collassi.
Perché ho fissato la data del 1989 come spartiacque? Perché esso è stato il momento della vittoria. Il momento in cui la vittoria fu percepita come completa. Che fu subito considerata come definitiva all’interno dei confini del “miliardo d’oro”. Terminava il sistema del comunismo; terminava la grande paura dell’Occidente e dell’America. Fukuyama decretava la fine della storia e tutti apparvero contenti. Sia in Occidente che in Russia.
Situazione fantasticamente favorevole, quella in cui i vincitori e gli sconfitti (in grandissima parte) provano gli stessi sentimenti di liberazione da un incubo.
Ecco, il dato paradossale, incongruo, è proprio questo: come mai, nel momento della vittoria, della liberazione dalla paura, l’Occidente capitalistico, guidato con mano fermissima e implacabile dagli Stati Uniti, scatena un formidabile attacco ideologico, culturale, politico, diplomatico, militare contro un nemico che ha appena dichiarato come non più esistente, debellato, liquidato, addirittura “per sempre”?
I festeggiamenti per la “caduta del Muro” non sono mai terminati da allora. Continuano tutt’ora e, si presume, continueranno ancora per qualche tempo, di anniversario in anniversario. Ma, tra un lancio di fuochi d’artificio e un altro, non cessa – anzi si accresce – l’incongruenza. Il 1989 dice infatti molte cose simultaneamente e non tutte così in linea le une con le altre. Dice, per esempio, che l’America è stata più forte dell’Unione Sovietica, ma non spiega l’attuale presenza della Russia sulla scena mondiale. Dice, per esempio, che il capitalismo ha demolito il socialismo, ma non spiega perché il mondo di oggi non è affatto sicuro, né pacificato. Non spiega soprattutto un dato inquietante per l’Occidente trionfatore: come mai, sparito il nemico principale, cui venivano attribuite tutte le colpe, in quanto “Impero del Male”, non sono spariti i problemi? Fino a quel momento la tenuta dell’unità dell’Occidente era stata determinata dalla paura dell’Oriente, impersonata dall’Unione Sovietica. Era in nome di quella paura che le élite di Stati Uniti ed Europa si erano cementate tra loro: per fare fronte a una minaccia percepita come mortale. Ma, sparito il nemico, divenne subito necessario costruirne un altro, artificialmente. E questa necessità derivava dal presentarsi di una crisi gigantesca, di tipo nuovo e inedito, le cui cause non potevano essere addebitate a un nemico esterno. Dunque, per evitare che qualcuno si facesse venire in testa idee improprie e inaccettabili, come ad esempio quella che esisteva, da qualche parte, un virusinterno al capitalismo globalizzatore, in grado di mettere a repentaglio la sua sopravvivenza, occorreva creare un altro nemico esterno.
Va detto che, in Occidente, vi fu chi aveva indicato l’esistenza di quel virus, e ne aveva delineato con precisione le sue caratteristiche. Non erano “di sinistra”. Ma costoro furono messi in un angolo, isolati, irrisi, prima di poter fare danni maggiori. Mi riferisco al Club di Roma e all’opera collettiva, intitolata “I limiti dello sviluppo”, che vide la luce all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso. Il virus era appunto rappresentato da quei “limiti”. Che erano invalicabili ma erano incompatibili con l’ideologia della crescita infinita. Per questo vennero cancellati “sulla carta” e nascosti allo sguardo delle moltitudini, poiché non si poteva parlare di limiti a chi era destinato a divenire consumatore compulsivo. Non era ammessa questa “bestemmia” alle orecchie di chi sarebbe stato presto privato di ogni possibilità di reazione di fronte al corso infausto degli eventi che si stavano preparando.
Cancellati sulla carta non significava cancellarli dal mondo reale. Ma, nel frattempo, il mondo reale era stato opportunamente trasformato in Matrix, e gli stessi suoi creatori avevano già ceduto alla tentazione di credere che quel mondo fosse la nuova realtà alla quale tutto e tutti avrebbero dovuto adattarsi: la natura e gli uomini.
Eliminata dunque – attraverso il controllo della comunicazione e delle menti – l’interpretazione e l’anticipazione della gigantesca crisi di sistema che si stava preparando, restava aperta solo l’opzione di creare un nuovo nemico. Naturalmente esisteva anche l’opzione razionale, consistente nel prendere atto dei limiti dello sviluppo, che erano incompatibili con la prosecuzione della crescita infinita, e procedere a un ridisegnamento dell’architettura internazionale che permettesse di gestire una transizione “multipolare” verso un equilibrio tra Uomo e Natura. Ma i centri di guida dell’Occidente, il suo “ponte di comando” erano mentalmente agli antipodi di una tale prospettiva. Avevano appena sgominato un’alternativa empirica, per quanto imperfetta, al loro dominio, e non erano certo inclini a creare, essi stessi, un’alternativa razionale ad esso. Per questo fu “necessario” inventare il nuovo nemico: “verde” al posto di quello “rosso”; islamico al posto di quello comunista.
Fu l’11 settembre 2001. Tutto l’Occidente divenne, in quel momento, l’America, e il cemento venne rinforzato con l’avvio della “guerra infinita” contro il terrorismo internazionale. Guerra che è in corso da 13 anni e che è
in evidente e continua intensificazione, sebbene la connotazione del termine terrorismo venga di volta in volta modificata dalle circostanze. È dunque necessario documentare le quattro affermazioni collocate all’inizio di questo scritto. Cominciando dalla prima. La Russia è “una minaccia”?
E, eventualmente, per chi? I dati ci dicono che la Russia è un paese capitalistico e, giuridicamente parlando, è una democrazia liberale. Dal punto di vista istituzionale si può affermare senza tema di smentita, che è uno “Stato di diritto”. Un diritto relativo – si può convenire – ma sempre uno Stato di diritto. Del resto, con i tempi che corrono, con le radicali modificazioni in corso del concetto di Stato di diritto (si prenda ad esempio il modello europeo, partito con l’idea di farne una democrazia, finito con una pratica autoritaria), e con le trasformazioni da tempo in atto negli Stati Uniti, dove il Patriot Act è in effetti uno stravolgimento autoritario dei principi fondanti della stessa democrazia americana. Dunque, con i tempi che corrono, pretendere che la Russia sia uno Stato di diritto perfetto, è davvero un’idea fuori di ogni logica, per non dire una pretesa insensata e prepotente. Dunque dovremmo concludere, di primo acchito, che la Russia non è un “altro da sé” rispetto all’Occidente. Per altro il crollo dell’URSS, come spesso si dimentica di ricordare, fu seguito da una vera e propria colonizzazione della Russia da parte delle idee, e delle forme di organizzazione politica e
sociale, dell’Occidente. La Russia eltsiniana divenne addirittura parte integrante dell’Occidente, al punto da essere accolta in tutte le sue istituzioni fondamentali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il G-8 e poi il G-20. A momenti si riusciva perfino a farla entrare nella NATO e passi importanti in quella direzione furono compiuti, con il consenso di una parte maggioritaria dell’élite moscovita degli anni ’90.
Eppure non c’è alcun dubbio che la Russia odierna sia concepita dai circoli occidentali come un nemico, cioè come una minaccia. E quando parlo di “circoli occidentali” sono costretto dai fatti a includere in essi tanto la destra quanto la sinistra europea. Borgognone ha dedicato a questa singolarità – delle sinistre europee, passate dall’anti-sovietismo all’antirussismo, cioè alla russofobia – numerose pagine, facendo spesso riferimento all’analisi di Costanzo Preve. Io non intendo approfondire questi temi perché in quell’analisi mi riconosco in buona parte. Il fatto è, però, che la Russia odierna costituisce una “oggettiva” minaccia ai progetti di costruzione di un “nuovo secolo americano”. Sottolineo il termine “oggettiva” perché la Russia attuale, la sua dirigenza attuale, non avrebbe avuto alcuna intenzione (cioè non c’è nessuna “soggettività” avversaria) di entrare in conflitto con l’Occidente. I suoi oligarchi sono interconnessi inestricabilmente con la finanza occidentale. La capitalistizzazione della Russia è avvenuta in forme violente e in tempi brevissimi, ma ha comunque permesso a quei capitali di integrarsi ormai stabilmente nel mercato globale.
Dove sono stati accolti con grande entusiasmo. I modelli di azione economico finanziaria dei grandi centri finanziari mondiali, a cominciare dalla City of London, e da Wall Street sono stati legge per il business russo. I sistemi di calcolo interno alla economica russa sono a tutt’oggi quelli di Master Card e di Visa, le banche russe sono soggette al sistema SWIFT come tutte le altre banche del mondo.
Come può essere “nemico” un soggetto internazionale tanto “integrato” nel sistema globale dell’Occidente? La risposta, a mio giudizio, è una sola. La Russia odierna è sicuramente tutto quello che ho fin qui elencato. Ma non è “soltanto” questo. Il “questo” è una parte nemmeno essenziale. È una corrente di superficie, un’increspatura marginale. Le “correnti profonde” sono tutt’altra cosa; si muovono, quando si muovono, con altre dinamiche, in altre direzioni, spesso imprevedibili. Lo stesso Vladimir Putin, che pure è stato all’origine di tutti questi cambiamenti superficiali, che pure è stato portato al potere dagli oligarchi che a loro volta obbedivano ai comandi della finanza mondiale, non era e non è soltanto “questo”. Gli ci è voluto un discreto gruzzolo di anni perché se ne accorgesse lui stesso. E siamo ora giunti al momento in cui, pena la sua stessa sopravvivenza fisica, oltre che politica, egli non può più essere “questo”.
La “colpa” non è sua. Mi verrebbe da citare qui alcuni dei momenti topici del Guerra e Pace di Lev Tolstoj. Là dove, tornando sulla sua visione degli eventi storici e la sua sprezzante sottovalutazione del ruolo delle personalità nella storia, descrivendo il vecchio Kutuzov alla vigilia della storica battaglia di Borodino, scriveva queste straordinarie riflessioni: “ … capiva come sia impossibile a un solo uomo dirigere centinaia di migliaia di uomini che lottano contro la morte, e sapeva che le sorti della battaglia sono decise non dagli ordini del comandante in capo, non dal luogo dove stanno le truppe (…) ma da quella inafferrabile forza che si chiama lo spirito delle truppe, ed egli vigilava su questa forza e la guidava, per quanto era in suo potere”.
Mutatis mutandis e usciti dalla metafora militare, Vladimir Putin è stato condotto, più che condurre lui stesso, da quella “inafferrabile forza” che è riemersa zampillando fuori non dal cuore della Russia, ma dalla Crimea, in quel momento ancora dentro l’Ucraina divenuta corpo estraneo e ostile. Il colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti in Ucraina, attraverso l’uso spregiudicato dei nazisti ucraini e dopo la ventennale opera di edificazione della russofobia portata avanti dai quattro presidenti della storia dell’Ucraina indipendente postsovietica, ha acceso nei russi di Crimea una fiamma che era stata spenta trent’anni prima e che nessuno pensava sarebbe tornata a brillare.
E la richiesta di “tornare in patria”, da parte di quella frazione di popolo russo che si sentiva, ed era, minacciata fisicamente, non poteva essere rifiutata. E fu quella scintilla che accese le regioni sud-orientali dell’Ucraina, piene di russi, anch’essi in pericolo. E che accese infine la grande massa dei russi, risvegliati anch’essi dal letargo in cui erano stati tenuti. Risvegliati dalla scoperta, davvero strana per molti, specie per le giovanissime generazioni, prive di ogni nostalgia, che l’Occidente non li ama. Non li ama anche se hanno accattato tutto il peggio dell’Occidente, e se ne sono sentiti parte.
Fino a che l’Occidente non ha smesso il suo volto benevolo di “Impero del Bene”, e non ha cominciato a ucciderli. Dopo Euromaidan e dopo la risposta crimeana, c’è stata Odessa, e il massacro del Donbass: molto oltre, molto più in là delle tutto sommato morbide discriminazioni antirusse del Prebaltico. Molto oltre le “vendette” anti-russe e anti-sovietiche di molte parti della ex Unione Sovietica: si è giunti alla pulizia etnica vera e propria, brutale, nazista, contro la comunità più numerosa e storicamente importante della nazione che sconfisse il nazismo. Troppo per essere sopportato in silenzio dalla Russia.
Dire che gli Stati Uniti non hanno la capacità di comprendere le radici profonde della storia dei popoli, non significa altro che tradurre in dati politici contemporanei la brevità della loro storia. La loro globalizzazione ha nutrito l’illusione che tutti i popoli potessero essere piegati con la tecnologia. Ma anch’essa è troppo breve – la sua storia intendo dire – per poter attingere alle profondità. La globalizzazione non poteva marciare “con il passo dell’Uomo”. La crisi dell’Occidente consiste anche in questo: che la sua scienza, formidabile motore di ogni tipo di cambiamenti, ha prodotto con la separazione dei saperi, con la settorializzazione dei saperi, con la specializzazione esasperata che la tecnologia comporta, una sterminata massa di “scienziati stupidi”, ciascuno capace di operare miracoli sul suo centimetro quadrato di sapere, e incapace al tempo stesso di vedere il prato in cui opera. Di questi scienziati stupidi fanno parte anche i leader politici e la loro corte di politologi, ai quali tutti, o quasi, manca la capacità di percepire le grandi forze che, volta a volta, impersonano lo “spirito del tempo”. L’America, nel momento più acuto della sua crisi, ha finito per risvegliare lo spirito addormentato della Russia. E ora, dopo averla sconfitta e assorbita – dopo avere creduto di averla sconfitta e assorbita – se la trova di fronte tutta intera, e risvegliata. Putin la sta ora interpretando.
Forse le energie di questa Russia non basteranno per avere ragione dell’immensa potenza che la tecnologia occidentale ha prodotto, e che si muove con una sua propria inerzia, appunto tecnologica. Forse sarà questa inerzia che produrrà la guerra, per la quale è stata costruita. Ma la Russia nata in Crimea ha ora la forza di chi non ha terreno su cui arretrare ulteriormente.
E, dietro di sé potrebbe improvvisamente trovare l’alleanza degli altri sei miliardi di individui che devono ancora essere asserviti. Zbigniew Brzezinski aveva individuato il problema molto tempo fa, alla metà degli anni ’80, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica e nessuno poteva nemmeno immaginare che, in meno di cinque o sei anni, l’URSS si sarebbe dissolta come neve al sole sotto i colpi di maglio del sistema comunicativo-informativo controllato dagli Stati Uniti. Brzezinski può essere, a buon diritto, considerato il demolitore principale dell’Unione Sovietica.
Ben più, a mio avviso, di Papa Wojtyla, fatto santo per meriti che non ebbe. Brzezinski aveva capito perfettamente che il compito principale che l’Impero aveva di fronte a sé non consisteva nell’abbattere l’URSS. Quello era l’obiettivo numero uno. Ma, dopo avere raggiunto quello, egli comprese che l’Impero si sarebbe trovato di fronte un secondo e più decisivo compito: quello di abbattere la Russia. L’Impero non avrebbe potuto tollerare l’esistenza di un partner così grande, meno che mai di un partner dotato di un sistema di armamenti in grado di mantenere l’equilibrio, cioè di delimitare il potere sterminato dell’Impero stesso.
La Cina era, in quella fase, in formidabile ascesa, ma nell’ipotesi della scuola Brzezinski, essa appariva maneggiabile, omogeneizzabile, assorbibile all’interno dello schema globalizzatore americano. Soprattutto non eraancora un antagonista strategico militare. Avevano previsto, a Washington, che essa sarebbe diventata il “pericolo principale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America”, ma un ventennio dopo, attorno al 2017. Il corso della storia ha però ristretto il tempo tra la fase due, demolizione della Russia, e la fase tre, il conto finale con la Cina. Cioè c’è stato un accidente della storia che ha impropriamente accorciato la parentesi tra le due tappe. Costringendo il gendarme mondiale ad affrontarle quasi insieme … Da qui il senso dell’urgenza e del disordine con cui stiamo entrando in guerra.
Ma l’iniziativa è indubbiamente quella degli USA ed è visibile a occhio nudo. Qui la Russia di Putin non è affatto all’offensiva, come si cerca di presentarla agli occhi del mondo. La crisi ucraina è stata organizzata per infliggere un colpo mortale alla Russia (e all’Europa). La Russia però costituisce, con la sua stessa presenza “fisica”, con le sue stesse gigantesche dimensioni, con l’immensa ricchezza di materie prime, con i suoi spazi agricoli potenziali, con le sue quantità d’acqua potabile, un obiettivo straordinariamente appetibile. E ora inaspettatamente più determinato a difendersi.
Dunque l’Impero, che è in crisi a causa dei “limiti allo sviluppo” e che è in crisi perché l’evidenza dimostra che non è più un “impero” (perché non è più in grado di comandare tutti, a cominciare dalla Cina) si trova obbligato, per la natura stessa di entrambe queste crisi, ad attaccare e a distruggere non uno solo ma i due antagonisti principali. Sia per mostrare che esso è ancora Impero, sia per procurarsi i mezzi per la sua esistenza futura. Lo sta facendo in tutta fretta. Più in fretta di quanto avesse preventivato di fare.
Perché il fattore Cina e già fin troppo visibile. Il 2017, si può dire, è arrivato “prima del previsto”. Il fattore “limiti” aleggia ormai nelle menti di molti, ma è per il momento sullo sfondo: i “ministeri della propaganda”, noti come i media occidentali, sono per il momento riusciti a nasconderlo agli occhi delle grandi masse popolari dell’Occidente. Ma l’urgenza di imminenti collassi – che i centri di ricerca americani già percepiscono con chiarezza, pur mantenendone segrete le fonti e le cause – impone un’accelerazione.
È una corsa contro il tempo. La capitale dell’Impero ha scelto la Russia come l’obiettivo da demolire per primo. Poi verrà la Cina. Per questo ha bisogno di sottomettere l’Europa in modo definitivo e irreversibile. L’attacco, condotto mediante l’Ucraina, è simultaneamente contro la Russia e contro l’Europa. I segnali sono convergenti. I fronti sono tutti aperti: dal califfato iracheno e siriano, alla Palestina cancellata da Israele, all’Ucraina. Per raggiungere questi obiettivi non si bada ai mezzi. Perfino il nazismo diventa utile, perfino il fantasma di Al Qaeda. Ma la vittoria implica lo sterminio del nemico, non più la sua sottomissione.
Bertolt Brecht scrisse, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, una specie di vaticinio che si sta inverando sotto i nostri occhi: quando la democrazia scolorirà in nazismo, allora avrà il volto dell’America.

Giulietto Chiesa